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Diritto di critica: il lavoratore ai tempi dei social

 

L’articolo 21 della nostra Costituzione riconosce al cittadino il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha definito la libertà di espressione il fondamento della società democratica.
In ambito lavorativo questo diritto è riaffermato dall’art. 1 dello Statuto dei Lavoratori: “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
L’esercizio del diritto di critica ha però dei limiti, quali il dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro, inteso in senso ampio, non riferito soltanto agli aspetti patrimoniali del rapporto, come ad esempio il divieto di concorrenza e di conflitto di interessi, ma in linea generale anche alla correttezza e alla buona fede tra le parti.

Secondo la giurisprudenza quali sono le condizioni ammesse nel diritto di critica del lavoratore? Sicuramente la veridicità e la continenza delle sue affermazioni.
Se sussistono una volontà offensiva nelle espressioni utilizzate, oltre le comuni norme dell’etica e del vivere civile, e una grave insubordinazione nonostante l’assenza di provocazione da parte del datore di lavoro, siamo di fronte ad un caso limite che autorizza, necessariamente, provvedimenti severi. La critica deve avvenire in modo misurato e civile, formale, e per ragioni dimostrabili e veritiere.

Ma nell’era digitale, nella quale tutti si sentono liberi di esprimersi attraverso i social o comunque in rete, come ci si comporta?
Assistiamo ad una sempre più densa casistica di esternazioni e comunicazione tramite mail, social e messaggistica. Il tema delle comunicazioni tra lavoratori tramite piattaforme informatiche è sempre più attuale ed in aumento; si pensi ad esempio all’uso sempre più intenso di Whatsapp all’interno dei team di lavoro e delle reti commerciali.

In relazione ai Social, sono sufficienti anche i pochi caratteri di un tweet per ledere l’immagine del datore di lavoro e “rendere esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori”, tradendo così il vincolo di fedeltà alla base dei rapporti di lavoro.

Se anche il lavoratore contestasse la paternità dei post sostenendo di aver lasciato incustoditi smartphone e tablet, deve dimostrare l’accesso abusivo da parte di terzi. Lo screenshot dei contenuti pubblicati sui social basta a dimostrarne la paternità, soprattutto quando le frasi sono verosimili e rafforzate da testimoni.

Viceversa, secondo una sentenza del Tribunale di Milano, rientra nel diritto di critica pubblicare un articolo che riguarda la propria azienda e commentarlo “genericamente”, affermando che “padroni così meritano solo disprezzo”. Il Tribunale di Milano, durante una sentenza, ha anche ritenuto che la parola“bastardo” non è diffamatoria, ma una semplice espressione di disistima.

Secondo la Corte di Appello di Torino i social sono da considerarsi luoghi pubblici e non serve rendere privato il profilo per renderne riservati i contenuti. Quanto viene pubblicato online può essere valutato dal giudice, a meno che non sia stato acquisito in maniera illecita, ad esempio forzando le password di accesso. Non vi sarebbe pertanto differenza fra profilo pubblico e privato perché anche un profilo privato può essere condiviso e diffuso dai contatti dell’utente, rendendo potenzialmente illimitato il numero dei destinatari dei messaggi pubblicati.

Stesso discorso per la Posta Elettronica.
Espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante e di altri collaboratori, inviate tramite e-mail, con accuse di inettitudine e scorrettezze, costituiscono grave negazione dell’elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro.
Viceversa sono legittime e non giustificano il licenziamento le email contro l’azienda se il dipendente non usa termini offensivi.
Naturalmente anche nel caso della email vale il principio della legittima acquisizione della prova.

I Gruppi di messaggistica, come Whatsapp e Skype, sono anch’essi sede di sfogo da parte del lavoratore. In relazione ad essi va osservato che i messaggi Whatsapp sono stati considerati prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i destinatari della chat.

Infedeltà dei dipendenti e collaboratori

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